Il lavoratore pubblico o privato che assiste coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado, con handicap in situazione di gravità, ha diritto, a determinate condizioni, di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito. Secondo la Cassazione le finalità dei tre giorni di permesso è quella di garantire da un lato una maggior continuità assistenziale, resa possibile dal tempo libero dal lavoro, e, dall’altro, deve permettere al lavoratore di ritagliarsi un “breve spazio di tempo” per provvedere ai propri bisogni.

Non è però obbligatorio prestare assistenza proprio nelle ore in cui il lavoratore doveva prestare la propria attività lavorativa. Sottolinea, difatti, la Cassazione che in nessuna parte della legge è prescritto che l’attività di assistenza debba essere prestata proprio nelle ore in cui il lavoratore avrebbe dovuto lavorare. 

Pertanto i tre giorni di permesso non sono da considerarsi assimilabili a giorni di ferie perché devono contemperare la finalità assistenziali pur non essendo richiesto l’impegno totalizzante. Tali permessi, quindi, sono “un’agevolazione che il legislatore ha concesso a chi si è fatto carico di un gravoso compito, di poter svolgere l’assistenza in modo meno pressante e, quindi, in modo da potersi ritagliare in quei giorni in cui non è obbligato a recarsi al lavoro, delle ore da poter dedicare esclusivamente alla propria persona” (Cass. Pen., sez. II, 23 dicembre 2016, n. 3209).